Giugno 1990. Ho 9 anni e mezzo. Sono appena arrivato in Sicilia con i miei genitori. L'Italia ospita i mondiali di calcio ed ha una squadra fortissima. Sono le notti magiche. Nella mia famiglia nessuno si interessa veramente al pallone, ma ci sono i mondiali e persino loro si sono lasciati inebriare dal clima euforico. Facciamo tutto il viaggio in macchina da Roma a Cassibile (allora come oggi, un'eternità) con io che sventolo dal finestrino un tricolore più grosso di me, cantando alé oh oh a squarciagola. Costantino mi viene appresso, i nostri genitori ci sopportano con infinita pazienza. Non so quasi nulla di calcio, ma la febbre mondiale che avvolge il Belpaese comincia a stimolare la mia curiosità. Tifo per la Roma e per Giuseppe Giannini, capitano giallorosso, che è anche il regista degli azzurri. A ogni pieno in autogrill mi regalano un pupazzetto caricatura con uno dei 22 azzurri. Mi piace molto il ciuffo di Nicola Berti che considero molto fico. Voglio avere i capelli come lui.
E' la sera del 19, ci troviamo a cena da amici siciliani, c'è Italia Cecoslovacchia, terza partita del gruppo eliminatorio, le due squadre sono in testa al girone e già qualificate, la posta in palio è il primo posto.
Siamo nel secondo tempo del match e vinciamo noi uno a zero, gol di Schillaci. A un certo punto Totò perde palla sulla lunetta di centrocampo, ma Giuseppe Giannini la recupera prontamente, per smistarla sulla fascia sinistra all'altezza della linea di centrocampo, dove c'è Roberto Baggio, appena passato dalla Fiorentina alla Juventus.. Questi fà due tocchi e la ridà al capitano della Roma che tocca di prima e la restituisce a Roberto confezionando una perfetta triangolazione. Succede allora qualcosa di straordinario, una sequenza che rimarrà per sempre scolpita nella memoria mia e in quella di tante persone della mia generazione e non: un gol da antologia calcistica che ci ha fatto innamorare per sempre del più forte giocatore italiano di tutti i tempi. Da allora lui è stato per me e per tanti il Fuoriclasse, il giocatore da amare, da seguire, e più avanti il simbolo romantico di una infanzia e di una adolescenza passate a parteggiare incondizionatamente per lui e tramontate definitivamente col suo ritiro nel 2004. Perché Roberto Baggio è unico, straordinario, affascinante, mai banale. Amato trasversalmente da tutta Italia, lo è stato meno dai suoi allenatori, a cui forse faceva ombra, da Sacchi a Lippi a Ulivieri. Con le sue infinite apoteosi e cadute, gli infortuni e le incomprensioni coi suoi tecnici, le tante squadre cambiate e le infinite resurrezioni il buddhista di Caldogno ha sempre affascinato gli italiani. Escluso da Sacchi dagli Europei del '96, (incredibile che un campione simile non abbia mai partecipato alla competizione continentale) non è mai stato un piantagrane, ma evidentemente il fatto stesso di essere Baggio gli creava problemi e produceva attriti e fraintendimenti. Memorabile la scena con Lippi durante un allenamento con l'Inter descritta dal giocatore nella sua autobiografia: Baggio fa un lancio perfetto per Bobo Vieri che segna, questi si gira e insieme a Panucci applaude l'autore dell'assist; Lippi proprompe in un fragoroso "Vieri, Panucci, ma che cazzo fate? Credete di essere a teatro? Non siamo
qui per farci i complimenti a vicenda, siamo qui per lavorare!"
Baggio che si rompe il ginocchio nel 2002 col Brescia e a 35 anni guarisce in tre mesi da una operazione al crociato inseguendo il sogno di un mondiale che Trapattoni gli negherà; assurge a simbolo positivo della volontà di farcela sempre e comunque, andando oltre i limiti e perché no anche ai difetti che tutti abbiamo. L'Italia è un paese strano, un paese di città e di campanili, sostanzialmente diviso su molte cose, ma compatto nella gioia di vedere Baggio convocato a furor di popolo per i mondiali del '98 in Francia, dopo due anni e mezzo di ingiusta astinenza dalla maglia azzurra, per lui e per noi.
E' un innamoramento irrazionale il nostro, un innamoramento a scatola chiusa: Baggio senza se e senza ma. Una passione iniziata quella sera del 1990 e tramutatosi in nostalgia per quella classe, quella eleganza nei movimenti che assomiglia a una danza, quelle parabole incredibili disegnate coi piedi. Una classe che neppure il magnifico Francesco Totti, che delizia noi romanisti da 20 anni, ha. A volte mi capita di sognare di passare del tempo con lui: una volta eravamo a caccia di anatre nella Pampa argentina, un'altra in salotto a casa mia a bere Recioto e a parlare di politica (!). Vi confesso che non vedo l'ora di risognarlo.
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